PRESENTAZIONLIBRO TACCUINNO DAL NOVECENTO VIAREGGINO: SILVIO MICHELI La spiaggia dei poveri, Viani, Pea e altre storie

Sabato 19 Ottobre al Caffè Così Com’è di Viareggio è stato presentato il volume dedicato a Silvio Micheli , uno dei più interessanti scrittori del Novecento ingiustamente e troppo a lungo dimenticato anche dalla sua Viareggio. Micheli si aggiudicò il Premio letterario Viareggio con ‘Pane duro’ edito da Einaudi e sempre il Premio Viareggio per l’inchiesta giornalistica ‘L’Artiglio ha confessato’. E’ stato autore di numerosi romanzi tra cui ‘Tutta la verità’ del quale Italo Calvino scrisse che era “ uno dei primi tentativi italiani di mettere il lavoro al centro di un’opera narrativa, di fare un romanzo di fabbrica capace di svecchiare i condizionamenti letterari”. Micheli è anche lo scrittore dei poveri, dei pescatori, dei marinai e del loro mondo. Nel 1972 Mursia pubblica ‘Capitani dell’ultima vela’ un bellissimo affresco sulla marineria . Aderisce alla lotta di liberazione , si iscrive al PCI , scrive su l’Unità e su numerose riviste tra cui Vie Nuove, il Mondo, il Pioniere. Sabato è stato dunque un bel pomeriggio di cultura e impegno civile introdotto dal curatore Andrea Genovali che ha ricordato che il libro nasce da un’idea di Antonello Santini, figlio di un altro grande viareggino il pittore Renato Santini.

Poi è stata la volta di Antonio dalle Mura che ha scritto l’introduzione al volume e che ha raccontato di come attraverso la scuola e il gruppo di amici che frequentavano il Cro-Darsene nei lontani anni cinquanta e sessanta ha imparato a conoscere Silvio Micheli e gli altri scrittori che passavano dal Premio Viareggio.

Si è soffermato poi sul suo ‘Pane duro’, troppo presto accantonato eppure un libro che ha e continua ad avere una tensione che ti afferra. Dalle Mura ha ricordato l’amore di Micheli per la sua città- lui la chiamava Paese- e per l’assoluto rilievo nei racconti dello scrittore alla marineria e ai marinai viareggini. Alcuni di questi li ritroviamo nel taccuino e che sono “racconti di uomini e donne comuni, di pescatori e di terrazzani, protagonisti per lo più di una commedia umana di poveri e umiliati“. “Il filo che lega questi racconti– ha concluso – è proprio quello della solidarietà, della comprensione e della compassione“. Una bella iniziativa con la presenza delle nipoti di Micheli e di tante persone al Caffè Così Com’è di Guido Berti, sempre più un luogo di arte, cultura !

Prefazione di Niclo Vitelli

I miei ricordi personali di Silvio Micheli risalgono ai primi anni settanta dello scorso secolo e mi
riportano a quelle stanze fumose della vecchia sede della Federazione versiliese del PCI o a
quelle, altrettanto impregnate di fumo della casa di via Coppino, dove si trasferì provvisoriamente la Federazione a causa dei lavori di costruzione della nuova sede di via Regia.
Chi frequentava quelle stanze – uno come me ad esempio, animato dalla speranza e dal desiderio di cambiare il mondo e
la società, da ideali d’eguaglianza e di libertà – si imbatteva sovente in compagni o compagne che
ti affascinavano. Potevi non condividere tutto o parte di quello che dicevano ma stavi ad ascoltarle,
attento a non perdere nemmeno una parola del loro argomentare. Erano persone che avevano alle
spalle un’esperienza che desideravi conoscere: la persecuzione dei fascisti e dei tedeschi, la scelta
della Resistenza, la lotta partigiana, il loro impegno nel dopoguerra per la ricostruzione, nella lotta per
il socialismo, per la democrazia progressiva o per le riforme di struttura di togliattiana memoria. Spesso
si confrontavano apertamente, discutevano tra loro animatamente e si scambiavano analisi e proposte:
c’era in tutti la condivisione di una prospettiva, di una strategia per costruire una società dove
le discriminazioni, le diseguaglianze sociali, la miseria e le sofferenze fossero definitivamente
eliminate, dove la classe operaia e il mondo del lavoro assumesse un ruolo guida e potesse
esercitare la sua egemonia.

Era in quelle stanze che ebbi modo di conoscere Silvio Micheli, Sergio e Vanda Breschi, Euro Romani, Giuseppe Antonini, Leone Sbrana, Fausto Liberatore, Luisa Cellai, Renato Santini, Nilo Bertolucci, Rolando Cecchi Pandolfini, Guido Galeotti, Mario Raggiunti, Adolfo Giusti, Ferdinando Marchetti, Iacomelli solo per citarne alcuni: personalità, vissuti, attività professionali alquanto diverse ciascuna delle quali, però, emanava un particolare fascino.
Silvio Micheli colpì subito la mia attenzione: esile con i baffetti ben tenuti, il viso scarno, rugoso e
soprattutto per quel sistematico rito di estrarre dal pacchetto di Nazionali o di Esportazioni una
sigaretta che inseriva frettolosamente nel suo inseparabile bocchino nero
. Non era un grande
oratore, aveva anzi un portamento modesto, schivo, non era abituato alle lodi sperticate, anzi
impacciatissimo nelle varie occasioni pubbliche: così fu anche, come ci racconta direttamente,
durante la cerimonia di proclamazione dei vincitori del Premio Viareggio, quando fu chiamato sul
palco per ricevere il premio: “Qua firma l’autore, gridavano al microfono. Anch’io mi alzai sulla
punta dei piedi e rimasi impacciatissimo quando Rèpaci mi trascinò per un braccio dietro al tavolo
del libraio. Tra le cinquecento copie del mio Pane Duro parevo un bottegaio che da a credenza, una
volta segnato il nome e cognome. Questo durò fino all’una. Alle due fui invitato a un tavolo e alle tre

mi girava la testa. La guazza cadde alle quattro. Alle cinque si notavano già gli alberi del giorno….Sui tavoli, nelle poltrone e per terra, le copie del libro che avevo firmate. In un’aiuola ne raccolsi tre o quattro come crisantemi e le distribuì, fuori dal Royal, aiprimi che incontrai. Due spazzini e un operaio che mi dissero grazie…”

Non amava vantarsi né faceva sfoggio di vanagloria:eppure si parla di una persona che aveva collaborato e collaborava con L’Unità, con Vie Nuove, con il Mondo, con il Pioniere; che era un giornalista eccezionale e a lui si dovevano numerosi articoli di viaggio raccolti nel volume Mongolia e alcune riflessioni e spunti di discussione sulla Resistenza pubblicate in Giorni di fuoco; che, soprattutto, era uno scrittore comunista, schierato con i gli umili, con quella classe operaia individuata come la classe levatrice della storia e colonna portante di un progetto di società più giusta, libera ed egualitaria. I suoi interventi erano chiari, precisi, comprensibili anche ai giovani neofiti come me ed erano sempre collegati al vivere comune, alle esigenze della gente, ai lavoratori, a quelle Darsene punto di riferimento e di rappresentanza fondamentale per il PCI.

Le frasi erano secche, i concetti si esternavano distillati ed essenziali. Nella Darsena c’era infatti l’altra città: quella del lavoro e della fatica, delle abilità e delle professionalità, della cultura popolare, dell’antifascismo. Lo ricordo, ancora, con Sergio Breschi e con Giuseppe Antonini al lavoro nell’Anpi e poi animatore e direttore di Televersilia. Breschi riuscì a trasformarlo da scrittore e uomo schivo aconduttore e animatore di trasmissioni televisive. Con la rubrica Carte in tavola contribuì al più
ampio e approfondito confronto e discussione sui principali problemi di Viareggio e della Versilia, ad
una attività di diffusione delle conoscenze storiche e della cultura locale. Fu spesso giudice nelle giurie
del Carnevale di cui amava rievocarne le origini che appartenevano al mare e al mondo del lavoro:
“…A quel tempo il carro del carnevale nasceva odoroso di ragia e pece come un bastimento,
nello stesso cantiere, a colpi d’ascia e a colpi di mazzetta…. Un colpo d’ascia e una carezza a palmo
aperto perché la mano potesse sfiorare il disegno, perché l’occhio potesse seguirne le linee: come a
bordo. Marinai e calafati, sbozzatori e carpentieri, qualche imbianchino segretamente iniziato all’arte

del pittore o per dir meglio alla decorazione, e scozzellai e intagliatori; erano questi, ciascuno
a modo suo, a dare l’opera dopo il travaglio giornaliero a bordo o nei cantieri”.
Più tardi con
me, che ero stato nominato responsabile del settore culturale del PCI versiliese, era prodigo di consigli,
di suggerimenti su come sviluppare una iniziativa che fosse in grado di coinvolgere le varie realtà,
vivaci e estroverse com’erano, nei vari settori: la pittura, la scultura, gli scrittori, i costruttori dei
carri; un’iniziativa che fosse in grado di collegarsi al mondo del lavoro, a quella classe operaia che era
il punto di riferimento fondamentale della nostra strategia di cambiamento e di trasformazione del
Paese.

Era attento ai cosiddetti contenitori culturali, quelle strutture e quegli edifici che dovevano
essere recuperati ad un ruolo attivo di formazione e di conoscenza.
Le nostre radici, le tradizioni
della società versiliese dovevano essere valorizzate e diffuse a partire da quelle che ritenevamo le
migliori. Il Centro documentario storico allora diretto da Francesco Bergamini era un esempio da
proporre, così come la meritoria attività del centro archivistico di Pietrasanta:
luoghi che attraverso
le loro iniziative contribuivano ad avvicinare le tradizioni del lavoro navale e quelle dei cavatori,
degli artigiani, del diffuso settore commerciale alle comunità locali. Era questo il suo pane duro,
per parafrasare il libro con il quale vinse il Premio letterario Viareggio- che doveva diventare il lievito
per una cultura democratica che i comunisti italiani coltivavano nei loro disegni riformatori.

Non c’era nessuna timidezza o paura nel confrontarci con altre culture, altre ispirazioni, altre concezioni e devo dire che pure nelle accese dispute e confronti non mancava il rispetto reciproco. Allora nessuno avrebbe mai pensato a bannare un’idea contraria, a mettere all’indice una critica, a tacitarla, a creare nei confronti di chi la sosteneva una sorta di tabula rasa. Il confronto era l’anima vera della democrazia e consentiva a rappresentanti politici ed istituzionali di trovare accordi su aspetti importanti della vita delle comunità locali. Federigo Gemignani sindaco democristiano di una giunta di quello che si chiamava allora centrosinistra fu coprotagonista attivo, d’intesa con il comunista
Gianfranco Tamagnini, dell’accordo con Leonida Rèpaci per il passaggio del Premio Letterario al
Comune di Viareggio. Oppure in quei Consigli di Quartiere dove le distinzioni e le diversità politiche
lasciavano spesso il passo alle risoluzioni unitarie a favore delle comunità.
Riscoprire e ripresentare all’attenzione figure come quelle che sopra ho ricordato e, in particolare,
Silvio Micheli diventa un’opera meritoria che dovrebbe essere perseguita con sistematicità e
con impegno, a maggior ragione da parte dei Comuni e delle loro attività culturali e storiche.
Serve ricordare che Silvio Micheli sia stato l’unico viareggino ad aggiudicarsi il Premio Letterario
Viareggio nel dopoguerra per ben due volte: l
a prima per la saggistica con Pane duro nel 1946
e poi, successivamente, con il premio inchiesta giornalistica con L’Artiglio ha confessato. Prima
della guerra un altro versiliese aveva spopolato al Premio Letterario Viareggio: Enrico Pea che
nel dopoguerra fu direttore e animatore di quel l’edificio ora chiuso e sbarrato, lasciato al degrado
progressivo, proprio sul balcone del salotto buono della Passeggiata, che fu il Nuovo Politeama. In quel
teatro si cominciò proprio a valorizzare gli artisti locali ad organizzare le rappresentazioni dei lavori
di Pea e le opere di Giacomo Puccini. Il Premio Letterario è stato assegnato anche a Lorenzo Viani
e poi a Mario Tobino e ai versiliesi Cesare Garboli e a Manio Cancogni.
Ecco, non si può pensare seriamente al futuro di una città come Viareggio senza avere dentro
il cuore, nell’anima e nella mente, le più vive tradizioni del suo passato, senza conoscerle,
senza valorizzarle adeguatamente:
senza questo patrimonio di conoscenza e di cultura qualsiasi
volo somiglia a quello di Icaro. Silvio Micheli è una delle tante, importanti radici della nostra comunità che andrebbero adeguatamente nutrite per farle continuare a vivere e perchè possano rimanere produttive e feconde così come lo sono state nel passato.

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