Lo Stato della Giustizia Tributaria. Perché non dobbiamo rifuggire dal giudicato tributario e perché il giudicato tributario è importante per le imprese ed anche per l’agenzia delle entrate

Riflessione e contributo del dott. Christian Dominici

Il nostro compito di professionisti è quello di elevare continuamente la qualità tecnica della nostra professione, solo l’estrema conoscenza tecnica permette il massimo rispetto deontologico del nostro cliente, e non la ricerca di soluzioni veloci e di compromesso – il Contribuente non deve essere spaventato dalle richieste dell’amministrazione finanziaria, ed indotto a transazioni pesanti e non convenienti, ma va guidato nella comprensione dei numerosi e diversi meccanismi di difesa offerti dal nostro ordinamento tributario. Agosto è il mese giusto – siamo tutti meno presi dal flusso continuo di richieste via mail che ci bombardano ogni giorno – e possiamo finalmente fare il punto tecnicamente sullo stato della giustizia tributaria del nostro Paese che, soprattutto a seguito delle recenti riforme in tema di onere della prova, offre strumenti avanzati di difesa delle ragioni del contribuente. Per uno studio come il nostro che presenta oltre 100 nuovi ricorsi annui a favore di Banche cessionarie, e che ha gestito dall’anno 2015 ad oggi per le primarie banche italiane, crediti tributari del valore di oltre 3 miliardi di euro (oltre 6.000 miliardi di vecchie lire – cifre da bilancio di uno Stato), che costituiscono un unicum nel panorama nazionale, è primariamente interessante conoscere lo stato della giurisprudenza tributaria del nostro Paese.

A fronte di accertamenti sempre più pesanti a carico di gruppi imprenditoriali – si pensi ai recenti e pesantissimi accertamenti nei confronti dei maggiori Gruppi della GDO e del settore Moda italiani e francesi operanti nel nostro Paese, non solo di indiscussa serietà e con fatturati di miliardi di euro annui, ma anche assistiti da primari studi professionali del nostro Paese, si ritiene interessante un approfondimento circa lo stato della giustizia tributaria nel nostro Paese. Riteniamo infatti che, in tutti questi casi, ed in tanti altri casi meno noti ai grandi canali di comunicazione, la pesantezza degli addebiti, il rischio di provvedimenti cautelari nei confronti degli amministratori, il rischio dell’amministrazione giudiziaria a carico della società, abbiamo indotto il contribuente ad una veloce – quanto pesantissima transazione – con l’agenzia delle entrate basata non sul giudicato di un Giudice, ma semplicemente sulla somma degli addebiti mossi dall’agenzia delle entrate o dalla guardia di finanza. Soluzioni transattive che se da un lato permettono all’impresa di gestire velocemente il fortissimo impatto mediatico di tali accertamenti, da un altro sono particolarmente onerose per il contribuente e, a nostro avviso, non eque né nei confronti del contribuente, né nei confronti dell’agenzia delle entrate. 

Si pensi inoltre – caso effettivamente occorso a Clienti del nostro Studio – che nel periodo Covid, molti accertamenti sono stati svolti con acquisizione della documentazione presso economie terze, e con semplici videocall dell’agenzia entrate con ulteriori aziende presuntivamente coinvolte in operazioni Iva, e quindi con notevole compressione ab origine dei diritti di difesa del contribuente. Oltre ad un problema di giustizia tra le parti, Agenzia delle Entrate e contribuenti, a mio avviso sussiste anche un problema di deontologia professionale per noi dottori commercialisti. Così come un bravo medico non spaventa il proprio paziente di fronte a complicati accertamenti diagnostici e vuole solo curare al meglio l’eventuale malattia del paziente. Il nostro ruolo di dottori commercialisti, non deve essere quello di spaventare il contribuente avanti pesantissimi rilievi tributari inducendolo ad una transazione magari a suo svantaggio, ma deve essere quello di guidare il contribuente nella propria difesa tributaria, come detto a vantaggio del contribuente e dell’Agenzia delle Entrate. 

La Procura europea (www.eppo.europa.eu) è un ufficio indipendente e decentrato dell’Unione europea composto da magistrati aventi la competenza di individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati a danno del bilancio dell’UE, come la frode, la corruzione o le gravi frodi transfrontaliere in materia di IVA. Il regolamento che istituisce la Procura europea nel quadro di una cooperazione rafforzata è stato adottato il 12 ottobre 2017 ed è entrato in vigore il 20 novembre 2017. Attualmente i paesi dell’UE partecipanti all’EPPO sono 22.A decorrere dal 6 luglio 2019, gli Stati membri hanno dovuto recepire nel diritto nazionale la direttiva (UE) 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (“direttiva PIF”). Queste nuove norme aumentano il livello di protezione del bilancio dell’UE armonizzando le definizioni, le sanzioni e i termini di prescrizione per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.

La Procura Europea EPPO e l’Italia

Da quando è stata istituita la procura europea ha attuato una serie di controlli che per oltre il 50percento dei casi hanno riguardato aziende italianeSe leggiamo il report finale anno 2023 della Procura Europea notiamo che su 1.371 procedimenti aperti nell’intera Unione Europea dalla medesima Procura, ben 556 casi riguardano il nostro “sventurato” Paese. Se vediamo poi il valore totale degli importi che la Procura Europea ha contestato dall’inizio della propria attività al 31.12.2023, notiamo che su 12,68 miliardi di euro di contestazioni complessive, ben 6,02 miliardi di euro di contestazioni sono a carico della sola Italia. Vero è che l’Italia non è solo un Popolo di Santi, Poeti e di Navigatori, ma pensare che oltre la metà delle pratiche aperte da EPPO, per numero e per valore delle frodi di Bilancio dell’intera Unione Europea riguardino l’Italia, su un totale di n. 27 Paesi Membri sembra un po’ esagerato. Diciamo che la Procura Europea non ha sicuramente uno sguardo benevolo nei confronti del nostro sventurato Paese.

Dopo l’avvio del procedimento e dopo i controlli di Guardia di Finanza ed Agenzia Entrate ci si può difendere solo con il contenzioso tributario.

Corte di Cassazione: decisioni in oltre 3 anni sui ricorsi secondo gli obiettivi PNRR Servono tre anni per chiudere un procedimento civile in Cassazione. Un po’ meno, in realtà (due anni e otto mesi) se si considerano solo i giudizi contenziosi, analizzati per gli obiettivi concordati con il Pnrr con il calcolo della durata prognostica (disposition time). Ma i tempi si allungano fino a tre anni e mezzo – dato peraltro in aumento rispetto agli anni scorsi – quando si allarga l’esame alla durata media di tutti i procedimenti civili che arrivano sui tavoli della Suprema corte. È quanto emerge dal report dell’ufficio statistica della Corte di cassazione riferito al primo semestre del 2024, pubblicati in agosto 2024, da Il Sole 24 Ore.

Ancora molti ricorsi tributari arrivano fino alla Corte di Cassazione. I motivi Buona parte dei ricorsi in Cassazione è ad opera delle Agenzie delle Entrate soccombenti o parzialmente soccombenti nei precedenti gradi di giudizio, che peraltro non scontano contributo unificato e altre rilevanti spese di difesa – prova che il contribuente onesto risulta quasi sempre vittorioso avanti le Corti di merito. Come poi notano anche molti Illustri giuristi, la qualità media giuridica delle sentenze di appello (CGT), per quanto decisamente migliorata rispetto al passato, è ancora inferiore a quelle del giudice ordinario. Questo significa che queste sentenze dei precedenti gradi di merito, sono ampiamente ‘giustiziabili’ e rendono più difficile – ove ben impugnate – il ricorso al procedimento accelerato (PDA); per cui anche questo strumento deflativo diviene meno pregnante.

Perché è importante per il Contribuente e per l’Agenzia delle Entrate adire la giustizia tributaria La transazione basata sui dati del PVC o dell’avviso di accertamento dell’agenzia entrate, seppur garantisce – come nei casi di cui si è parlato in premessa – la piena continuità della vita aziendale e l’immediata cessazione delle sanzioni – anche di natura penale e di restrizione della libertà personale a volte – in capo agli amministratori, è procedimento che da un lato risulta molto costoso per il contribuente, e dall’altro lato non favorisce quel percorso di apprendimento e di verifica delle prove e delle presunzioni che gioverebbe anche all’agenzia delle entrate per un corretto fine tuning dei successivi accertamenti.

Le prove nel giudicato tributario a favore del contribuente ed a carico dell’agenzia delle entrate – una prima analisi sintetica Si deve infatti ricordare che in questi anni, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha fatto grandi passi in avanti nella tutela delle ragioni del contribuente contro le presunzioni dell’agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza.

A titolo esemplificativo e non esaustivo:

  • L’articolo 6 della legge di riforma 31 agosto 2022, n. 130 ha introdotto all’interno dell’articolo 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, riguardante i poteri delle corti di giustizia tributarie, il comma 5-bis, in materia di onere della prova. La nuova norma prevede testualmente che: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”  – onere della prova recentemente rafforzato a carico dell’agenzia delle entrate, e non del contribuente;
  • Il D. Lgs. 219/2023, pubblicato in G.U. n. 2 del 3.1.2024, introduce importanti modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente (L. 212/2000), rendendo concreti e operativi i principi e criteri direttivi indicati dalla legge delega fiscale (L. 111/2023). In particolare, l’articolo 1, comma 1, lett. e) del D.Lgs. 219/2023, introduce nel corpo normativo delineato dallo Statuto del contribuente l’articolo 6-bis, L. 212/2000, l’obbligo generalizzato del contraddittorio preventivo tra enti preposti e contribuenti prima dell’emissione definitiva dell’atto di accertamento. Il nuovo art. 6-bis della L. n. 212/2000 rubricato “Principio del contraddittorio” così recita: Salvo quanto previsto dal comma 2, tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria sono preceduti, a pena di annullabilità, da un contraddittorio informato ed effettivo ai sensi del presente articolo. (…) Per consentire il contradditorio, l’amministrazione finanziaria comunica al contribuente, con modalità idonee a garantirne la conoscibilità, lo schema di atto di cui al comma 1, assegnando un termine non inferiore a sessanta giorni per consentirgli eventuali controdeduzioni ovvero, su richiesta, per accedere ed estrarre copia degli atti del fascicolo. L’atto non è adottato prima della scadenza del termine di cui al primo periodo. Se la scadenza di tale termine è successiva a quella del termine di decadenza per l’adozione dell’atto conclusivo ovvero se fra la scadenza del termine assegnato per l’esercizio del contraddittorio e il predetto termine di decadenza decorrono meno di centoventi giorni, tale ultimo termine è posticipato al centoventesimo giorno successivo alla data di scadenza del termine di esercizio del contraddittorio. L’atto adottato all’esito del contraddittorio tiene conto delle osservazioni del contribuente ed è motivato con riferimento a quelle che l’Amministrazione ritiene di non accogliere.» obbligo di contraddittorio di fatto e non di forma – motivato e da recepire con osservazioni sulle parti non condivise nell’atto impositivo da emettere a carico dell’agenzia delle entrate – obbligo particolarmente pesante a carico agenzia entrate e praticamente MAI assolto in via completa dall’agenzia delle entrate;
  • Le direttive comunitarie nel nostro processo tributario «La direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretata nel senso che essa osta a che un soggetto passivo effettui la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto riportata nelle fatture emesse da un prestatore di servizi qualora risulti che il servizio è stato sì fornito, ma non da tale prestatore o dal suo subappaltatore […] alla doppia condizione che tali fatti integrino un comportamento fraudolento e che sia stabilito, alla luce di elementi oggettivi forniti dalle autorità tributarie, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’iscriveva in un’evasione, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare» (sentenza 13 febbraio 2014 emessa nella causa C-18/13; in tal senso si veda anche Cass. n. 24426/2013, n. 7900/2013, n. 6229/2013 e n. 18446/2012);
  • «47 Se è vero che un siffatto soggetto passivo si può trovare obbligato, quando dispone di indizi che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità̀ o di frode, ad assumere informazioni sull’operatore presso il quale intende acquistare beni o servizi al fine di assicurarsi dell’affidabilità̀ di quest’ultimo, la competente amministrazione tributaria nazionale non può esigere tuttavia in maniera generale da tale soggetto passivo, da un lato, di verificare che l’emittente della fattura relativa ai beni e ai servizi per i quali l’esercizio di tale diritto è richiesto disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che esso abbia adempiuto agli obblighi dichiarativi e di versamento dell’IVA, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità̀ o frodi a livello degli operatori a monte, o, dall’altro, di disporre di documenti a tal riguardo (sentenza del 22 ottobre 2015, PPUH Stehcemp, C-277/14, EU:C:2015:719, punto 52). 48 Poiché la produzione di siffatti documenti supplementari non è prevista dall’articolo 178, lettera a), della direttiva IVA e può incidere, in modo sproporzionato, sull’esercizio del diritto a detrazione nonché, pertanto, sul principio di neutralità, la competente amministrazione tributaria nazionale non può esigere, in via generale, una siffatta produzione» (sentenza 4 giugno 2020 resa nella Causa c-430/19);
  • Limitazione ai poteri di indagine dei cessionari, dei professionisti e delle imprese terze rispetto ai poteri dell’amministrazione finanziaria: l’amministrazione finanziaria non può pretendere che il contribuente svolga verifiche complesse e analoghe a quelle che soltanto la stessa amministrazione può eseguire con i propri mezzi e le proprie banche dati a sua esclusiva disposizione (cass. 14102/2024),
  • la prova dell’esistenza e della effettiva operatività di una società o di una cooperativa fornitrice da parte del cessionario, passa attraverso la sola verifica formale dell’esistenza della società, dei bilanci, dello svolgimento ad esempio per le società cooperative dei controlli biennali di revisione, e non si possono richiedere al cessionario ulteriori controlli che solo l’Agenzia Entrate e la Guardia di Finanza possono svolgere su economie terze;
  • sull’analisi dei bilanci pubblici delle aziende terze gli unici e massimi controlli che può svolgere il soggetto cessionario sono quelli di una congruità di massima dei principali indicatori di bilancio – Quaderno del 15 dicembre  2020 pubblicato sul sito della Banca d’Italia, – recentemente “indicatori elementari segnaletici” (Qiummat – immobilizzazioni materiali/attivo, Qonfin – interessi e altri oneri finanziari/ricavi, Qpatr – capitale sociale versato + riserve nette/passivo, Qacco – acquisti netti + costi per servizi e godimento di beni di terzi/ricavi e il Qlav – spese per il personale /ricavi) elaborati dalla UIF – Unità di informazione Finanziaria della Banca d’Italia – in un recente studio;
  • la vendita di prodotti sottocosto, presunzione spesso usata da Guardia di Finanza ed Agenzia Entrate, è stata invece ritenuta dalla Corte di Cassazione principio non dirimente: in tanti settori come ad esempio il settore dell’elettronica e di tutti i prodotti di elevato valore tecnologico, in cui è elevatissimo e particolarmente veloce il tasso di obsolescenza dei prodotti, molte vendite avvengono sottocosto sia per la grandissima concorrenza di altri operatori, sia per evitare ulteriori e continue perdite di valore del magazzino – in questi casi inoltre secondo la Core di Cassazione, il contribuente può produrre anche solo nel successivo nel contenzioso tributario una perizia giurata del valore dei beni precedentemente venduti, anche se tale perizia non era stata fatta all’atto della vendita sottocosto;
  • Il c.d. principio di vicinanza della prova prevede che l’onere della prova debba essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per l’uno o per l’altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, per cui è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare;
  • sempre in linea con la giurisprudenza di legittimità, per il principio di vicinanza della prova, l’elemento del sottocosto non è una circostanza conosciuta e/o conoscibile dal cessionario della merce e quindi non utilizzabile a danno del soggetto cessionario;
  • Approccio sostanziale e non formale ai fini del regime Iva intracomunitario per la prova dell’effettiva consegna dei beni: la dichiarazione di avvenuta consegna dei beni e delle merci da parte del cessionario può essere fornita anche solo x post nel corso del giudizio tributario – Corte di Cassazione sentenza n. 8477 del 28 marzo 2024 – ordinanza Corte di Cassazione n. 30889/2023 – Cgt secondo grado Lazio, sentenza 2338 del 9 aprile 2024; Cgt secondo Grado Torino sentenza n. 629 del 8 maggio 2024;
  • E soprattutto è sempre a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere della prova che il cessionario non solo fosse parte di una catena fraudolenta, ma fosse anche a conoscenza e consapevole della frode (mancando il secondo elemento della consapevolezza manca totalmente la frode comunitaria), Cass. n. 24426/2013, n. 7900/2013, n. 6229/2013 e n. 18446/2012 , Corte Tributaria di Secondo Grado della Lombardia, sentenza n. 1688/25/2024;
  • La prova della consapevolezza non può passare attraverso mere presunzioni dell’agenzia entrate e della Guardia di Finanza (che molto spesso leggiamo nei PVC), ma richiede elementi oggettivi e specifici – ordinanza Cassazione n. 5594/2024;
  • Le prove da fornire a carico dell’agenzia delle entrate si complicano ulteriormente in tutti i casi in cui oggetto del servizio sia il trasferimento di un bene immateriale quali ad esempio i servizi telefonici:
  • se trattasi di mercato regolamentato ovvero sotto la vigilanza di un’apposita Authority sulle TLC, nel qual caso esiste un benchmark più oggettivo di riferimento delle quotazioni delle tariffe cui fare apposito riferimento;
  • se trattasi di traffico telefonico in roaming europeo oppure no;
  • se trattasi di traffico di dati, telefonia fissa oppure telefonia mobile, nonchè della destinazione/mercato di arrivo del traffico telefonico, tenuto conto anche della relativa fascia oraria.
  • Particolarmente significativa infine la nuova correlazione tra giudicato penale e giudicato tributario.

Il rapporto tra giudicato tributario e giudicato penale

Giudicato penale nel processo tributario dopo la Legge n. 130/2022. Il riformulato art. 654 c.p.p. è oggi la norma che disciplina l’efficacia del giudicato penale nei confronti del procedimento tributario. Esso statuisce che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione o di condanna fa stato nel processo civile ed amministrativo a talune condizioni. La sentenza penale irrevocabile assume efficacia vincolante e opera automaticamente nel processo tributario. In base a tale principio, introdotto dalla Legge n. 130/2022, che ha radicalmente modificato il rapporto tra giudicato penale e processo tributario, la Corte di giustizia tributaria ha accolto l’appello della società contribuente. Spiegano i giudici che la sentenza penale irrevocabile non assume più mera efficacia probatoria, bensì efficacia di giudicato automaticamente rilevabile nel processo tributario. Di conseguenza viene meno il cosiddetto “doppio binario” tra processo penale e processo tributario. Alla luce del recente dettato normativo, infatti, la sentenza definitiva di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, fa stato nel giudizio tributario, con riferimento ai fatti materiali accertati in sede penale. Nel caso di specie, pertanto, i giudici pugliesi hanno disposto l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato. Ed inoltre, anche nel corso del giudicato penale, “Il giudicato penale pendente non ferma la definizione agevolata: sono definibili in maniera agevolata i contenziosi tributari pendenti anche in presenza di un giudizio penale non concluso sugli stessi contenziosi” – Corte di Cassazione sentenza n. 40217 del 15 dicembre 2021.

Giudicato tributario e tutela del Cessionario del Credito

Il cessionario ed i terzi non dispongono dei poteri di accertamento, ispezione, verifica presso economie terze, accessi presso economie terzi, ispezioni sui luoghi di lavoro ed intercettazioni ambientali e telefoniche di cui dispongono ovviamente soltanto Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza. Questo principio è stato di recente ribadito da Cassazione n. 14102/2024 “in considerazione del fatto che il contribuente non dispone degli stessi poteri ispettivi dell’Ufficio o della GdF”.

In termini di tutela dei diritti del soggetto cessionario ci permettiamo di segnalare n. 4 sentenze della Corte Tributaria di Primo Grado di Ferrara – ottenute dallo scrivente Studio Professionale e passate in giudicato – che hanno stabilito l’inopponibilità al cessionario di rilievi Iva del cedente anche per frode Iva successivi alla cessione, in tutti i casi in cui i carichi potenziali o l’avvio delle indagini della Guardia di Finanza e/o dell’Agenzia delle Entrate – seppure addirittura precedenti alla cessione – non fossero mai stati segnalati nel certificato carichi tributari emesso a favore del cedente prima della cessione del credito tributario.Si tratta certamente di una interpretazione innovativa, come detto passata in giudicato a favore della Banca cessionaria da noi difesa, ma di grande tutela ed innovazione delle ragioni dei soggetti cessionari che garantisce:

  1. il trasferimento dei crediti tributari sulla base delle informazioni che il cessionario può correttamente e regolarmente acquisire senza avviare indagini di polizia tributaria che sono al cessionario ovviamente: sia negate e sia impossibili;
  2. garantire la regolarità degli scambi dei crediti Iva, in un mercato, quello della cessione dei Crediti Iva del nostro Paese che vale oltre 2 miliardi di euro annui.

Altre fondamentali sentenze di merito recentemente ottenute dal nostro studio a tutela del soggetto cessionario:

  • dopo la notifica dell’atto di cessione dei crediti, nessuna ulteriore eccezione e contestazione nuova in relazione al credito ceduto può essere opposta al soggetto cessionario che mantiene l’integrale diritto al rimborso del credito acquistato” Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sentenza n. 3082/2021 depositata il 18 agosto 2021;
  • il provvedimento cautelare con cui l’agenzia delle entrate sospende il rimborso del credito per carichi tributari precedenti del soggetto cedente non può mai diventare definitivo, nemmeno per effetto di un giudicato su una situazione giuridica precedente e non più attuale”;
  • anche la mera notifica dell’atto di cessione del credito – senza ulteriori formalità – è un valido atto interruttivo della prescrizione decennale” Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna sentenza n. 5/2022 del 03.01.2022.

Come al solito, la verità non è quella degli avvisi di accertamento o dei PVC, che come detto hanno recentemente coinvolto le maggiori imprese del settore Moda e della GDO del nostro Paese per valori rilevantissimi e spesso fuori controllo, indicando tali importanti Gruppi come parti di lunghissime catene di frodi Iva (di cui molto probabilmente non conoscevano neppure l’esistenza). La realtà è quella che si forma sulla base delle regole certe e delle modalità probatorie del giudizio penale e del giudizio tributario. Regole che non solo sono a vantaggio del contribuente, ma sono anche a tutela dell’Agenzia delle Entrate che in primis ha interesse a dimostrare alla Procura Europea EPPO che le aziende del nostro Paese (destinatarie della quasi totalità dei controlli della Procura Europea come sopra detto) operano correttamente e sono correttamente sottoposte a verifiche periodiche. Inoltre il giudizio tributario giova alla medesima Agenzia delle Entrate perché permette un fine tuning, sulla base dei giudicati, degli accertamenti ancora da effettuarsi.

Fin qui il giudizio tecnico. In realtà se pensiamo che la Procura Europea EPPO, ha ormai la giurisdizione su tutte le frodi di bilancio comunitarie di valore superiore a 10 milioni di euro, operate negli Stati Membri, e che oltre il 50 percento dei casi aperti sia per numero, sia per valore, riguarda il nostro “sventurato” Paese, è sicuramente necessaria una ulteriore riflessione di carattere politico. L’Europa ha avuto il grande merito di garantire una lunga stabilità monetaria e bassi costi di finanziamento per i Paesi Membri. L’Italia avrebbe dovuto sfruttare questo lunghissimo, e per noi inusuale, periodo di tassi bassi per passare dalla logica delle PMI, alla logica almeno dei campioni europei, se non dei campioni e delle piattaforme tecnologiche mondiali. Questa sfida l’abbiamo persa ed anzi abbiamo appesantito le nostre PMI di adempimenti e regolamentazioni comunitarie che, per imprese di piccola taglia, sono gravose ed a volte insostenibili. Giusto che vi siano i controlli, ma anche giusto che tali controlli siano politicamente concentrati per numerosità e valore su tutti i Paesi membri. Come già esposto, è vero che l’Italia non è solo un Popolo di Santi, Poeti e Navigatori, ma probabilmente è fin troppo “lusinghiero” per noi pensare che oltre il 50% delle frodi di 27 Paesi membri, sia svolto in Italia, e quindi anche l’attività della procura europea andrebbe probabilmente meglio orientata politicamente. Non si tratta solo di scoprire le presunte frodi e di uscire immediatamente sulla stampa con articoli che per la gravità degli ammontari contestati e la lunghezza delle catene societarie coinvolte, sono già di per sé una condanna per gli imprenditori, ma si tratta anche di difendere quel – poco – che rimane del tessuto imprenditoriale serio del nostro Paese da facili ed a volte superficiali accostamenti con comportamenti fraudolenti di lunghe catene societarie, magari completamente sconosciute agli imprenditori seri che ne vengono accostati.

Come detto, però il ruolo anche deontologico di noi professionisti, è quello di non spaventare il contribuente a fronte di richieste spesso elevatissime e fuorvianti, di rassicurare il contribuente serio, e di convincerlo che nel corso del contenzioso tributario, pacatamente, emergerà una verità processuale fondata non su presunzioni ma su un solido rapporto di prove, a vantaggio del contribuente e dell’agenzia delle entrate.

A cura di Gianfranco Antognoli Con Credito

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