“D’accordo, non è proprio come dovrebbe essere, ma in fondo non è così maleducato come lo sta descrivendo lei”.
Questa è una delle tante frasi che spesso i genitori utilizzano quando vengono informati dagli insegnanti che il loro amato figlio ha tenuto un comportamento non idoneo o scorretto.
A giudicare dalla cronaca e supportata dall’esperienza professionale mi sento di dire che stiamo vivendo in un’epoca in cui madri e padri sono poco disposti a vedere messo in discussione il proprio erede ed invece disposti a tutto purchè il figlio diventi il “numero uno”.
Tempo fa ho avuto l’occasione di leggere un articolo in cui si raccontava che in occasione della recita natalizia, si era sollevata una sommossa di mamme indignate dal fatto che la Natività preveda una sola stella cometa, con abito ad hoc per la bambina prescelta. “Perché mia figlia dovrebbe fare soltanto una stellina nel mucchio?”.
A bordo campo di calcio, pallavolo o rugby, troviamo poi i papà che litigano con l’allenatore perché il figlio sta troppo in panchina. Un classico.
Il mantra dominante sembra essere quello del: “Mio figlio ha ragione!” ed al TAR arrivano puntuali i ricorsi di genitori che contestano bocciature, anche a partire dalla prima classe della scuola primaria.
Gli insegnanti chiedono il trasferimento e sono terrorizzati dalle eventuali ripercussioni di alunni e genitori, anche fisiche.
Ai miei tempi la bocciatura non era nemmeno prevista. Intendiamoci, non che non esistesse in ambito scolastico. Semplicemente non era contemplata in casa mia. Ed ogni volta che portavo a casa un brutto voto e tentavo di inveire contro l’insegnante, ipotizzando un odio personale nei miei confronti, dall’altra parte (madre) la risposta era sempre la stessa: “La prossima volta vedi di studiare di più!”. Partiva allora l’attacco finale ed il disperato tentativo della giustizia distributiva, altrimenti detto “mal comune e mezzo gaudio”, di affermare che tutti avevano preso un’insufficienza con il subdolo obiettivo di mettere in cattiva luce la professionalità dell’insegnante. Niente. Anche questo miserrimo finale sforzo non trovava accoglimento e la discussione si concludeva con un: “Allora siete tutti ignoranti.”. Punto. A capo.
Oggi le cose sembrano essersi ribaltate ed i tentativi di cui sopra trovano terreno fertile in genitori per i quali i figli non hanno colpe e sono vittime di una società che non li comprende. Cosa sconcertante se pensiamo che generazioni di italiani sono cresciuti con l’idea che la cosiddetta autorità (dal professore al vigile, dall’allenatore al preside) avesse sempre buoni motivi per intervenire. La campana di vetro non era contemplata e si credeva anche che un surplus di premure fosse diseducativo.
Riporto un brano di un’intervista a Susanna Mantovani, pedagogista e psicologa dell’età evolutiva che ho avuto l’onore di conoscere durante la stesura della mia tesi di laurea.
“Oggi i figli sono molto voluti. Spesso vengono decisi. E molte coppie si fermano ad uno. C’è quindi un sovrainvestimento. Il figlio che non funziona è un colpo alla tua identità, difficile da digerire.
L’educazione è equilibrio, richiede fatica e tenuta, costanza d’atteggiamento. Per giunta, se il bambino o il ragazzo è abituato a comandare in famiglia, per lui è dura non essere più l’unico ma uno dei tanti. Dire no, imporsi, non è una prepotenza, bensì un dovere del genitore. Le frustrazioni fanno crescere, non sono un pericolo.”.
I genitori oggi tendono sempre più ad evitare lo scontro e cercano di “gestire” i figli, di tenerli tranquilli, ed il risultato sono bambini prepotenti ed adolescenti fragili ed aggressivi perché non sono abituati alle difficoltà.
Nel mondo virtuale, come in quello reale, i genitori del Duemila vedono solo pericoli. Le sane sudate di un tempo, le pene di cuore, le serate gagliarde, le gite di classe o i ruzzoloni sulla neve sono pericoli. Tutto è da evitare. Al Nido d’infanzia ancora oggi ci sono genitori che chiedono alle educatrici di non portare i bambini in giardino. Non si può, fa freddo. E nonostante gli esperti si esprimano sull’importanza della cosiddetta “outdoor education” vediamo spesso arrivare piccole mummie infagottate che dobbiamo sforzarci di riconoscere dagli occhi.
Molti genitori credono che il loro compito principale sia proteggere quei piccoli esseri che sono i loro figli, anche se sono più alti di loro e quasi maggiorenni. Il mondo fuori è rischioso. In realtà si tratta di una banale semplificazione: se ti occupi dei bisogni, controlli che tutto vada bene, hai svolto la tua funzione. Fine. È più dura assumersi la responsabilità di mettere il figlio alla prova, accollarsi il rischio di non sapere cosa fa. Si sta crescendo una generazione di inetti e tantissimi ragazzi non sanno badare a se stessi. Ci sono liceali che non sanno prepararsi un panino.
Tanti ragazzi non sanno litigare con i coetanei e non sanno reggere un fallimento, un professore duro, e le mamme chioccia sostengono la tesi dell’antipatia personale del professore nei confronti del figlio. Esattamente come mia madre non ha mai fatto, per fortuna.
L’iperprotezione non aiuta i bambini a valutare le conseguenze delle proprie azioni. Si cresce per tentativi ed errori. E così ci sono i genitori che vedendo tornare a casa un figlio con un graffio chiedono: “Chi è stato?” ed altri, la minoranza, che chiedono: “Cosa hai fatto?”.
Mi sento di fare poi un’altra riflessione sul ruolo degli insegnanti. Se da un lato assistiamo ad una profondissima svalutazione della loro autorevolezza, per cui tutto il loro operato deve essere messo in discussione pur di non prendere consapevolezza delle mancanze dei figli, dall’altro è anche vero che la scuola ha subito trasformazioni evidenti negli ultimi anni. La relazione con le famiglie è cambiata e la pandemia ha esasperato una lontananza tra scuola e genitori che già aveva messo radici negli anni precedenti.
Oggi i genitori possono visionare il registro elettronico e controllare i figli sia nel loro rendimento scolastico sia per ciò che riguarda l’impegno a casa. Non ho mai capito il senso di questa “rivoluzione copernicana” che non di rado è stata giustificata come un modo per ottenere la collaborazione dei genitori ed è stata infiocchettata con i nastri della “condivisione scuola-famiglia” ma che in realtà, a mio parere, nuovamente svilisce il ruolo autorevole degli insegnanti. Consentire ai genitori di “monitorare” quotidianamente il rendimento scolastico dei figli mi sembra sempre un’ingerenza che poco ha a che vedere con il rispetto del ruolo dei professori e soprattutto è molto lontano dall’idea di un figlio che deve rendersi autonomo e responsabilizzarsi.
Poi accade che in una scuola primaria vengano organizzati i colloqui con i genitori e si comunichi in anticipo che ogni genitore avrà a disposizione cinque minuti (cinque minuti d’orologio) per poter parlare del proprio figlio, magari con tre insegnanti. Ed io mi chiedo come sia possibile essere arrivati a questo punto, cosa si è inceppato nella scuola se deleghiamo ad un registro elettronico la relazione scuola-famiglia e cosa è accaduto ai genitori che accettano passivamente una tempistica che certamente non collima con la possibilità di conoscere un bambino come persona, come essere unico ed irripetibile, come individuo che vive emozioni e sentimenti, e non solo come alunno.
In tutta onestà io non credo affatto che i bambini di oggi siano più felici di quanto non lo siano stati i bambini di quarant’anni fa. Tutt’altro. Di fatto sono soli, accuditi da tablets e cellulari, sprovvisti di regole chiare, di paletti bordo strada entro i quali camminare per non perdersi. Ed i genitori abdicano al proprio ruolo consentendo ai figli di assumere atteggiamenti tirannici e prepotenti.
Non si tratta più di capire chi ha ragione. Bisogna partire dal presupposto che gli adulti hanno il compito di decidere, di educare, ed è necessario, oggi più che mai, ritrovare l’autorevolezza che forse può stare stretta a molti ma che, vi assicuro, è salvifica. Quell’autorevolezza che può farci credere in un futuro dove gli adolescenti smetteranno di prendersi a coltellate filmandosi con il telefonino.
“Una persona autorevole, per essere tale, deve essere capace di dire no. Ma quanto è diventato difficile pronunciare quella paroletta, in un mondo come il nostro, letteralmente ossessionato dal consenso.”
Élisabeth Badinter
Dott.ssa Anna Maria Montanaro (Pedagogista)