I cani abbandonati nel nostro Paese sono centinaia di migliaia, ma il fenomeno non è distribuito in modo uniforme nella penisola, e si concentra prettamente nelle regioni del Sud.
Al nord è pieno di cani del sud. Li riconosci subito.
Biondicci, né piccoli né grandi, zampe scattanti, nasi slanciati e code importanti. Spesso hanno un’andatura felina, con la testa leggermente abbassata, le orecchie tese e lo sguardo attento a tutto ciò che lo circonda come uno scanner.
Il loro viaggio da migranti li catapulta nelle braccia di famiglie caritatevoli che li accolgono con occhi pietosi e con un pensiero che subito gli balena nella testa.
Chissà cosa hanno passato, pensano.
Chissà che gli hanno fatto, povere creature.
E’ giusto rendervi consapevoli che, buona parte di questi cani non ha passato proprio niente, non ha nessuna storia di maltrattamenti alle spalle. Sono semplicemente randagi di seconda o terza generazione, nati e cresciuti per strada senza guinzaglio o pettorina.
Hanno imparato a cavarsela grazie agli insegnamenti della madre o mediante l’osservazione di altri randagi, che ha permesso loro di acquisire le competenze necessarie a vivere e sopravvivere in un ambiente non sempre facile ma nel quale sono padroni delle loro azioni.
Finché qualcuno non ha deciso di regalargli una vita “migliore”. Un’offerta, che a detta degli umani, non si può rifiutare, soprattutto quando finisci in una gabbia trappola.
Ed eccoli qua, i nuovi migranti a 4 zampe arrivati per mezzo di staffette, che invadono il settentrione, smarriti e disorientati in un mondo pieno di nuove regole, ad abitare spazi minuscoli, a passeggiare con ridicoli abbigliamenti, a marcare terre che sono di tutti e di nessuno, nel vano tentativo di reclamare il proprio posto. Un ambiente caotico, rumoroso, cosmopolita e denso di persone, proprio quelle che avevano imparato a non avvicinare, perché meglio non fidarsi.
Alcuni di loro si aprono, prima con la famiglia adottiva, poi con tutti gli altri, cercando di trarre il meglio da questa nuova vita più prevedibile e sicura. Altri non riescono ad abbandonare la propria natura evitante, non riescono a dimenticare il loro imprinting selvatico, non si abituano all’odore dell’essere umano che pervade ogni angolo di strada.
Ma i volontari che si sono prodigati per “salvarli” inteneriscono il popolar pubblico narrando che “erano cani vaganti”. Con questo termine stiamo dicendo che non hanno una dimora (domus) e quindi un padrone (dominus), ma gli stiamo anche negando implicitamente un’intenzionalità, quella di muoversi secondo una volontà propria e ben precisa. Nessuno si sognerebbe di definire vagante un elefante, un rospo o un pettirosso. Gli animali non vagano, si spostano perché hanno motivi per farlo.
E così, quelli che non riescono ad abituarsi alle geometrie umane finiscono per trascorrere la loro nuova e migliore vita guardandosi costantemente le spalle, e non dev’essere una bella sensazione. A pensarci bene non erano vaganti prima, lo sono diventati nel momento in cui qualcuno li ha inseriti in un contesto che non gli appartiene.